il caso
SILVANA MOSSANO
CASALE MONFERRATO
Quelle mascherine? Banali. Inadatte, di carta e con il ferretto da stringere sul naso. Le tenevi su un po’, a dir tanto un’ora, poi le toglievi perché soffocavi. O magari le tiravi giù, a coprirti solo la bocca, lasciando libere le narici: da ridere! Come se potesse bastare riparare la bocca lasciando fuori il naso. Ma che efficacia avevano queste protezioni? «Un semplice effetto psicologico» ha commentato il professor Luigi Mara, consulente di parte civile (per Medicina Democratica e per alcune organizzazioni sindacali) al processo Eternit che si svolge a Torino contro il belga e lo svizzero accusati di disastro ambientale.
In ogni caso - le voci degli esperti sono univoche (tanto quella di Mara, quanto quella di Emanuele Lauria, consulente per la procura) - le mascherine, in un elenco di precauzioni, stavano all’ultimo posto, precedute da ben altri accorgimenti che si sarebbero dovuti adottare: dall’impostazione corretta del processo produttivo, all’organizzazione del lavoro («eliminando il cottimo - ha detto Mara - cui invece erano sottoposte, ad esempio, le donne nel reparto speciale in cui si confezionavano i pezzi a mano; e imponendo pause»), alle strutture delle postazioni, agli impianti di aspirazione e ventilazione. Infine, anche le mascherine che, ovviamente, dicono gli esperti, non si potevano sopportare a lungo, perché non sono fatte per essere sopportate a lungo. Ha insistito il professor Mara: «Bisognava ricorrervi soltanto in situazioni particolari ed eccezionali quando si accentuava, per certe operazioni o accidentalmente, la polverosità. E, in ogni caso, le mascherine vanno custodite e riposte correttamente» ha detto Mara. Non posate su un bancone a sua volta impolverato.
Gli ex operai dell’Eternit di quelle mascherine si fanno una risata amara. Molti l’hanno detto al processo (alcuni le sostituivano con un fazzoletto davanti alla bocca e legato dietro alla nuca) e lo ripetono nei corridoi del tribunale: «Erano protezioni da nulla». Italo Mazzuccato - dieci anni all’Eternit - non è più qui a raccontarlo, perché il mal d’amianto se l’è già preso, ma il figlio ha ben vivo quel che gli diceva suo padre: «Le mascherine di carta si impregnavano con l’umidità del fiato e, dopo un po’, la polvere d’amianto si appiccicava formando una crosta così. Non respiravi più». E quelle con i filtri? Non trovavano miglior impiego, perché, ha spiegato Mara, «i filtri vanno cambiati spesso»; invece, riferisce il figlio di Italo Mazzuccato, «ti tenevi gli stessi per tutto il turno». E se si intasavano? «Si sfilava il filtro e lo si puliva con un soffio di aria compressa». Ecco, il tubo di aria compressa era il sistema magico per tutto: per i filtri, così come per pulire la tuta o spolverare i capelli imbiancati prima di andare a casa.
Alle ispezioni «programmate» due volte all’anno nei vari stabilimenti, si è mai misurata la polvere in situazioni eccezionali? Secondo i tecnici no. E, anche nelle ispezioni, in certi reparti non si facevano campionamenti, come ad esempio «al piano di sopra, dove si arrivava con il carrello pieno d’amianto, lo si pesava e lo si rovesciava giù nell’imboccatura per la mescola». Basta guardare le foto: «Parlano da sé».